Elaborato sulla storia della Palestina: il punto di vista delle studentesse

Chiara, docente al Galfer tra le promotrici del documento Gaza now!, ha condotto uno splendido lavoro con una sua classe e ci invia un elaborato di grande pregnanza:

Questo testo è stato scritto da cinque ragazze di una quarta liceo scientifico di Torino. È frutto di una loro rielaborazione e riflessione profonda a partire da alcune lezioni tenute da me in classe sulla storia della Palestina, come storia di colonialismo insediativo e di sradicamento di un popolo, dalla terra su cui viveva da millenni. Fino al genocidio e all’espulsione di oggi. Si intrecciano termini come memoria, dolore, testimonianza, speranza, amore per la terra e per la vita, giustizia, ritorno: parole che coinvolgono pensiero ed emozioni, soprattutto perché scritte da giovani capaci di credere, ed impegnarsi per un mondo diverso di giustizia, convivenza, solidarietà e pace.

Alunni: Ilaria, Sara, Amina, Bianca, Miranda, IVD

Elaborato

E’ estremamente importante ricordare ciò che è accaduto, e che sta tutt’oggi succedendo, in Palestina dopo il secondo conflitto mondiale; hanno tentato di nascondere ogni cosa, ma alla fine la verità emerge sempre. Il nostro lavoro si basa sul domandarci delle questioni: può una frase cancellare un popolo?
A primo impatto sembra impossibile; una frase è solo un insieme di parole, un modo per raccontare un’idea, per riassumere un progetto; tuttavia ci accorgiamo che alcune frasi non si limitano a descrivere il mondo: lo ricreano.
“Una terra senza popolo per un popolo senza terra.” A prima vista è solo uno slogan politico. Ma se ci fermiamo a studiarla nel dettaglio, scopriamo che dentro nasconde un intero sistema di potere.
Dire che una terra è “senza popolo” non è mai un’osservazione neutra: è un atto di cancellazione, è il gesto con cui si toglie il nome, poi la voce, e infine la casa.
Michel Foucault, filosofo e sociologo francese, ci ha insegnato che il linguaggio non è solo comunicazione, ma potere: chi definisce la realtà, la domina. E questa frase, nata
nell’Europa di fine Ottocento, ha avuto la forza di plasmare il destino di un intero popolo.
Ci chiediamo: cosa succede quando le parole diventano armi? Quando una frase determina che qualcuno, da un giorno all’altro, “non esiste”? Forse è da qui che dobbiamo cominciare
per capire la Nakba, la catastrofe del popolo palestinese nel 1948.
Nel 1948 nasce lo Stato d’Israele e per il popolo ebraico è il momento dell’indipendenza, del ritorno, della rinascita, mentre per un altro popolo, quello palestinese, è l’inizio della catastrofe.
Oltre 700.000 persone sono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni o vengono espulse con la forza.
Centinaia di villaggi vengono distrutti e rasi al suolo. Alcuni spariscono completamente dalle mappe, altri vengono rinominati, come se cancellare il nome potesse cancellare la memoria.
Gli ulivi vengono sradicati, le pietre delle case utilizzate per costruirne di nuove.
Eppure, anche se la Nakba si è verificata più di settant’anni fa, non è mai finita del tutto.
Ancora oggi infatti esistono milioni di rifugiati palestinesi, molti dei quali nati in esilio.
Hannah Arendt, dopo aver vissuto in prima persona l’esilio e la persecuzione, ha scritto parole che ancora oggi ci fanno riflettere, parlando della “perdita del diritto ad avere diritti”.
Questo pensiero restituisce con schiacciante verità l’atroce sofferenza dei rifugiati, rivelando il peso della perdita dei diritti, compresi quelli umani inviolabili, come il diritto alla vita e alla libertà.
Cosa significa, davvero, perdere il diritto ad avere diritti? Significa che non si ha più luogo dove quei diritti possono essere riconosciuti, non è solo la perdita di una casa, di una terra, ma di qualcosa di più profondo: la perdita di appartenenza.
Quando nessuno Stato ti riconosce come cittadino, vieni estromesso dall’esistenza politica: resti sospeso tra la memoria di ciò che eri e l’incertezza di ciò che potrai essere. Non appartieni più ad una comunità, non hai più un posto nel mondo condiviso. Sei semplicemente un essere umano, ma senza un luogo dove poter esistere. Ed è proprio questo, secondo Arendt, il più grande scandalo della modernità.

E allora viene spontaneo chiedersi:
Come si sopravvive a una vita senza luogo?
Come si costruisce un’identità quando la terra che ti ha generato ti è stata tolta?
Chi sei, se non appartieni più a nessuno spazio, se nessuno Stato pronuncia il tuo nome come “uno dei nostri”?
Per i palestinesi, dopo quanto avvenuto nel 1948, questo è diventato la quotidianità,non si tratta solo della nostalgia per la casa perduta, ma anche del fatto di essere continuamente “fuori posto”, rifugiati nei campi, sospesi tra frontiere, tra documenti provvisori e identità
frammentate. E’ un’esistenza fatta di limiti che possiamo definirli invisibili: non poter tornare, non poter appartenere, non poter dire “questa è la mia terra”.
Arendt direbbe che in quella perdita non c’è solo ingiustizia, ma è un segnale d’allarme: quando un popolo perde il diritto ad avere diritti, tutti noi siamo più fragili.
Ciò significa che i diritti non sono davvero universali, ma dipendono dal riconoscimento
politico, dal potere, dalle mappe, dai confini. E allora i diritti non sono più “dell’uomo”, ma del
cittadino, e chi resta fuori da quella categoria, resta invisibile.
E allora ci chiediamo: può esistere l’umanità se ci sono persone senza diritti?
Può una civiltà definirsi giusta se accetta che milioni di individui vivano senza patria, senza
protezione, senza nome?
La riflessione di Arendt, in fondo, è un invito a guardare il mondo con occhi più responsabili.
Non basta dire “poveri rifugiati”: bisogna capire che ciò che accade a loro riguarda anche a
noi; ogni volta che un popolo viene reso invisibile, la nostra idea stessa di umanità si
indebolisce.
Perciò la Nakba non è solo un evento storico: è una ferita aperta per i palestinesi ma anche
per l’intera cittadinanza umana. Ogni campo profughi, ogni documento negato, ogni bambino
che cresce senza patria, ci ricorda che i diritti non sono mai garantiti per sempre, che vanno
difesi ogni giorno, per tutti.
E forse è proprio da qui che nasce la vera domanda: non è solo “come si vive senza radici?”
ma anche “cosa succede al mondo quando lascia che qualcuno le perda?”.
Cerchiamo di immaginare un villaggio palestinese prima del 1948.
Le case in pietra, gli ulivi che fanno ombra, le donne che stendono il bucato, i bambini che
corrono tra le strade. Tutto sembra immobile, quotidiano. Poi, in pochi giorni, tutto cambia.
Le case si svuotano, le famiglie scappano, i nomi spariscono. Molti di quei villaggi oggi non esistono più. Non sono stati solo distrutti, ma anche cancellati: rasi al suolo, ricoperti, rinominati. Al loro posto sorgono nuove città e basi militari. Come se cancellare il passato
potesse rendere più “puro” il presente.
E qui nasce la domanda difficile: perchè si cancella?
Forse per paura. Forse perché è più facile costruire qualcosa di nuovo se si finge che prima
non ci sia stato niente.
Forse perché accettare che qualcuno c’era, che viveva, amava, pregava, sperava, obbligherebbe a fare i conti con una colpa.
Ma cancellare non è mai qualcosa di neutro. E’ una violenza che lascia silenzio. Togliere un nome, cambiare una mappa, sradicare un ulivo: sono gesti che vogliono dire “non sei mai esistito”.
Eppure proprio in quel tentativo di cancellazione, nasce la resistenza della memoria.
Anche se le mappe non li segnano più, quei villaggi vivono ancora nella mente di chi li ha abitati. I genitori raccontano ai figli dove stava la casa, dove passava la strada, dove crescevano i fichi. Le chiavi delle porte, portate via durante la fuga, vengono considerate
come reliquie. Sono pezzi di un mondo scomparso, ma anche prove di un’esistenza che nessuno può mai negare, neanche Netanyahu.
E allora ci chiediamo: può davvero sparire un luogo se qualcuno continua a ricordarlo?
Forse no. Forse la memoria è più potente della geografia.
C’è qualcosa di profondamente ingiusto in questa logica del “cancellare per esistere”.
Per un popolo nuovo, costruire la propria identità è diventato possibile solo togliendo quella dell’altro e questo dovrebbe farci riflettere: può un’esistenza fondarsi sull’assenza di un
altro? Può esserci vera libertà se nasce dalla negazione di qualcun’altro?
La verità è che cancellare non distrugge, lascia solo ferite aperte. Le pietre dei villaggi demoliti, riutilizzate per costruire case nuove, sono come testimoni muti. Le radici degli ulivi sradicati crescono, a volte in mezzo all’asfalto, come se la terra stessa rifiutasse di
dimenticare.
La cancellazione, alla fine, non è solo fisica: è anche simbolica.
E’ un tentativo di riscrivere la storia, di dire “qui non c’era nessuno”. Ma ogni volta che un nome viene tolto da una mappa, resta una voce che lo pronuncia a voce bassa, una memoria che si lascia cancellare.
E forse è proprio per questo che spaventa chi cancella: il fatto che la memoria, anche quando sembra fragile, sopravvive.
Ci sono storie che restano sepolte per anni, come se il tempo potesse davvero coprirle.
Tantura è una di queste.
Un piccolo villaggio palestinese, come tanti altri, cancellato nel 1948. Case distrutte, famiglie disperse e, secondo molte testimonianze, un massacro che per decenni nessuno ha voluto ricordare.
Per molto tempo, Tantura è stata rimossa dalla memoria collettiva: assente dai libri di storia
e ignorata nei discorsi ufficiali, come se non fosse mai esistita.
Ma la memoria, si sa, non obbedisce alle regole del silenzio. Resta lì, nascosta, pronta a
riemergere quando qualcuno trova il coraggio di ascoltarla.
E’ quello che è successo con il documentario “Tantura”.
Un documentario che non urla, ma dice la verità. Racconta di come lo storico israeliano
Teddy Katz, raccogliendo testimonianze di ex soldati e sopravvissuti, ha scoperto una vita
scomoda: che in quel villaggio è avvenuto un massacro, poi negato, dimenticato, riscritto.
Quando Katz lo ha raccontato, venne screditato, messo a tacere. Perchè? Forse perché
riconoscere il dolore dell’altro è la cosa più difficile che si possa fare.
Ammettere che un’ingiustizia è avvenuta non è solo un atto storico, ma anche umano.
Significa guardarsi dentro e accettare che la propria identità può avere delle ombre.
E non tutti riescono a farlo. Non tutti riescono a dire: “Sì, anche noi abbiamo fatto del male”
per non danneggiare la propria immagine di Paese più morale del Mondo. Come spiega Ilan
Pappé la storia che Israele ha sempre raccontato a sé stesso e agli altri è quella di una
nazione pura, nata dal bisogno di giustizia, un piccolo Davide coraggioso che si è sempre
difeso da un mondo ostile. Ma questa storia nasconde una verità difficile da ammettere.
Mentre Israele celebrava la sua nascita, oltre 750.000 palestinesi venivano cacciati dalle loro
case e dalle loro terre. Questo evento, che i palestinesi chiamano Nakba, è la parte della
storia che manca in quella ufficiale israeliana. Pappé sostiene che, per mantenere intatta la
propria immagine di nazione morale, Israele ha dovuto cancellare questo ricordo, trattandolo
come se non fosse mai accaduto o come se fosse stato necessario per difendersi dagli
Arabi che loro chiamano animali. Ammettere di essere nati da un atto di “pulizia etnica”,
come lo definisce lui, farebbe crollare l’intero edificio morale su cui si basa lo Stato.
Pappé spiega che l’identità ebraico-israeliana è costruita sull’essere stati vittime per secoli.
La paura più grande è guardarsi allo specchio e scoprire di essere diventati il contrario: degli
oppressori. Perdere lo status di vittima e riconoscere di essere la causa della sofferenza di
un altro popolo sarebbe, secondo Pappé, psicologicamente devastante per la coscienza
dell’intero Paese.
Come si ci sente a sentirsi sempre nella parte della ragione mentre si occupa militarmente un altro popolo?
Pappé spiega che si attiva un meccanismo di difesa molto potente: la disumanizzazione. Se si smette di vedere i palestinesi come persone con sogni, famiglie, diritti e una storia, e si inizia a descriverli solo come un “problema demografico”, una “minaccia per la sicurezza” o
“terroristi”, diventa molto più semplice giustificare quelle azioni e in questo modo la coscienza può rimanere pulita e l’idea di nazione “pura” può continuare a vivere.
E allora ci chiediamo: perché è così difficile ascoltare il dolore dell’altro?
Forse perché la memoria non è mai neutrale, infatti Israele sceglie cosa ricordare (la propria sofferenza) e cosa cancellare (il dolore altrui).
Ricordare significa scegliere da che parte stare, o almeno ammettere che una parte è rimasta fuori dal racconto.
Ma è solo accettando anche quella parte che possiamo davvero capire.
Il documentario su Tantura ci insegna una cosa semplice ma fondamentale: il silenzio non guarisce, nasconde, negare la memoria non protegge, ma avvelena e la verità, anche se fa paura, è l’unica strada per la riconciliazione.
Forse il senso più profondo di questa storia è proprio questo: la memoria non appartiene a un popolo solo. E’ qualcosa che ci riguarda tutti.
Ogni volta che un dolore viene taciuto, la nostra umanità si spegne un po’. Ogni volta che qualcuno trova il coraggio di raccontare, la storia torna a respirare.
Mentre tutto questo accadeva, il mondo guardava.
O forse faceva finta di vedere.
Nel 1948, quando è nato lo Stato di Israele, gran parte dell’Occidente ha visto in esso una risposta giusta dopo l’orrore della Shoah. Ma nel tentativo di riparare un dolore, ne hanno ignorato un altro.
La nascita di un popolo significa, per un’altro, l’inizio dell’esilio. Così, la gioia di alcuni è diventata il silenzio di altri.
Dopo la Seconda guerra mondiale le tensioni tra Israele e Palestina si sono trasformate in qualcosa di più grande: un campo di battaglia politico, perfino ideologico.
Durante la Guerra Fredda, il conflitto in Medio Oriente è diventato una scacchiera su cui le grandi potenze giocano le loro mosse.
Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non videro più persone, ma alleati e nemici e gli stessi USA, per contenere l’influenza sovietica, decisero di legarsi ad Israele. Lo armarono, lo finanziarono, lo raccontarono come il “Paese della libertà” in una regione instabile.
Dall’altra parte, l’Unione Sovietica cercò appoggio nei Paesi Arabi, spingendoli contro Israele, ma senza mai impegnarsi davvero a difenderli.
Così, anche la tragedia è diventata uno strumento nelle mani dei potenti.
I Paesi Arabi stessi, come Egitto, Siria, Iraq, usarono a volte il conflitto per rafforzare il consenso interno, per distrarre i propri cittadini da crisi e ingiustizie.
Il risultato è stato che, mentre i governi discutevano, i palestinesi continuavano a vivere nei campi profughi, senza casa, senza diritti, senza voce.
E oggi, dopo più di settant’anni, la situazione non è così diversa.
Il conflitto è diventato anche un’arma mediatica. Politici, aziende e persino miliardari usano il tema di Israele e Palestina per guadagnare voti, influenza, visibilità.
Si creano campagne pubblicitarie, messaggi mirati, parole che cambiano forma a seconda di chi le deve ascoltare. E’ lo stesso meccanismo di allora: cambiare il linguaggio per cambiare
la verità.
E allora viene spontaneo chiedersi: il mondo guarda davvero, o guarda solo ciò che gli conviene vedere?
Perchè mentre le potenze parlano di “alleanze”, “sicurezza” o “stabilità”, milioni di persone continuano ad essere bombardate, a vivere tra i muri, check-point e campi profughi.
Come si può parlare di pace, se non si parla mai di giustizia?
Forse la pace non è solo la fine della guerra, ma il ritorno alle radici.
Il ritorno a quel legame invisibile che ognuno di noi ha con la sua terra, con i luoghi che ci hanno cresciuto.
Perché quando perdi la tua casa, non perdi solo dei semplici muri: perdi una parte di te.
Perdi i suoni, gli odori, le abitudini. Perdi l’appartenenza e senza di essa, la vita si spezza in due: da una parte c’è ciò che eri, dall’altra ciò che non puoi più essere.
Simone Weil, filosofa francese, dice che l’essere umano ha bisogno delle radici come gli organi del corpo. Le radici non sono solo terra, sono il senso, sono la dignità.
Essere “radicati” significa sapere da dove vieni e sentire che quel luogo ti riconosce.
Perdere le radici, invece, significa smettere di esistere agli occhi del mondo.
E’ quello che accade ai rifugiati palestinesi: sono vivi, ma spesso invisibili.
Non hanno un luogo da cui trarre forza, eppure continuano a portarlo dentro.
E allora ci chiediamo: come si vive sapendo di appartenere a un posto che non ti appartiene più? Come si fa a restare umani quando tutto intorno ti dice che non conti, che non esisti, che la tua storia non vale?
Qui entra in gioco anche Frantz Fanon, psichiatra francese, che ci ha insegnato che la colonizzazione non è solo occupazione di terre, ma anche della mente.
Quando viene sottratta la terra, si insinua anche l’idea di non averla mai meritata. Si comincia a dubitare di sé, della propria lingua, della propria cultura.
Ma Fanon ci ricorda anche un’altra cosa: la liberazione inizia quando il silenzio si rompe,quando cioè chi è stato colonizzato smette di credere alla voce del dominatore e torna a credere alla propria. E’ solo adesso che la memoria diventa un’arma non violenta,
ma potentissima. Non per vendicarsi, ma per guarire.
Simone Weil e Fanon, pur venendo da mondi diversi, ci parlano della stessa verità: che un essere umano senza radici è come un albero tagliato alla base, può ancora vivere un po’, ma prima o poi si secca.
I palestinesi, con la loro lingua, le loro poesie, le chiavi conservate, ne sono la prova.
Le radici non servono solo a ricordare il passato, ma a resistere nel presente.
E la ferita più grande non è quella del corpo, ma quella dell’anima: quella di chi è
consapevole di appartenere a un luogo che gli è stato tolto.
Forse allora la giustizia non è solo restituire una terra, ma riconoscere un’esistenza.
Riconoscere che ogni popolo, ogni persona, ha diritto di sentirsi “a casa” da qualche parte.
Perchè non c’è pace possibile se qualcuno, ancora oggi, è costretto a vivere senza radici e senza voce.
E allora la memoria diventa l’unico luogo dove poter tornare.
quando la terra ti viene tolta, la memoria diventa la tua casa.
E’ lì che continui a esistere, anche se il mondo finge di non vederti.
La memoria è una forma di resistenza silenziosa.
Non ha bisogno di armi, ma di parole, di ricordi, di gesti.
E’ tramandare una storia, un profumo, una lingua.
E’ dire “io c’ero” anche quando ti vogliono cancellare.
Frantz Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non toglie solo la terra, ma anche la fiducia in sé stessi. Ti fa credere di non meritare la libertà, ti convince che la tua cultura
valga meno, che la tua voce sia troppo piccola per essere ascoltata.
E’ una violenza che entra dentro, che spegne la persona piano piano.
Ma la liberazione inizia proprio lì, quando quel silenzio si rompe. Quando chi è stato cancellato ricomincia a raccontarsi.
E come ho già detto prima, la memoria non serve per vendicarsi, ma per guarire. E in questa guarigione entra la poesia.
Perchè la poesia è la memoria che respira, è la parola che tiene in vita ciò che la storia prova a dimenticare.
Mahmoud Darwish, poeta palestinese, ha scritto versi che non parlano di odio o di guerra, ma di amore per la vita.
Nella sua poesia “Su questa terra/َ ْرضv َھ ِذ ِه اkmَ n”, ricorda che, anche nel dolore più grande, esistono ancora cose che meritano di essere vissute: l’aroma del pane fresco, il ricordo del primo amore, una madre che canta, la bellezza di settembre, una donna che ride.
Tutte le cose piccole, ma immense.
E poi, alla fine, Darwish scrive:
“Su questa terra c’è ciò che merita la vita…
Si chiamava Palestina.
Continua a chiamarsi Palestina”
E’ un verso che non chiede pietà, ma riconoscimento.
Non parla di vendetta, ma di dignità.
Dice che anche chi è stato privato di tutto merita di vivere, di amare, di appartenere.
La poesia, in questo senso, diventa una casa per chi non ha una casa, una patria fatta di parole, un modo per dire che loro esistono ancora.
E forse è proprio per questo il valore più profondo della memoria:
non lasciare che il dolore cancelli la bellezza,
non lasciare che la rabbia uccida la speranza,
non lasciare che la storia venga scritta solo dai vincitori.
Ricordare non significa restare fermi nel passato, ma continuare a scegliere la vita, anche quando la vita sembra ingiusta.
Significa credere che, nonostante tutto, su questa terra c’è ancora qualcosa che merita di essere amato. Finché ricordiamo e le parole non si perdono, c’è la possibilità di ottenere una giustizia migliore.
Concludiamo dicendo che, forse, la storia non si misura solo con le date o con le guerre vinte, ma con le ferite che restano aperte.
La Nakba non è solo un evento del passato, è una condizione dell’anima.
E’ l’impossibilità di tornare, ma anche la forza di non smettere di ricordare.
E’ la prova che un popolo può essere scacciato dalla sua terra, ma non dal suo nome.
E allora ci chiediamo: che cosa significa davvero “avere una patria”?
E’ solo un confine, una bandiera, un documento?
O è qualcosa che ci portiamo dentro, che fa parte di noi, del nostro modo di amare, sognare e resistere?
Forse avere una patria significa avere un posto dove non devi giustificare la tua esistenza. E finché anche una sola persona non ha quel posto, nessuno può dirsi davvero libero.
Il mondo continua a parlare di “pace”, ma a volte sembra che non sappia più cosa significhi.
Perchè la pace non è solo assenza di guerra, è la presenza di giustizia, di ascolto, di riconoscimento. E’ poter dire “io esisto” senza paura.
E ci chiediamo: quante persone nel mondo, oggi, non possono ancora dirlo?
Ci siamo abituati a vedere la sofferenza come qualcosa di lontano, come immagini da uno schermo.
Ma ogni volto che vediamo, ogni casa distrutta, ogni nome cancellato, è una storia che ci riguarda. Perchè la disumanizzazione di una persona diventa, lentamente, la disumanizzazione di tutti.
E se impariamo a voltare lo sguardo di fronte a un’ingiustizia, finiamo per non vedere più nessuna.
La memoria, allora, non serve solo a ricordare ciò che è accaduto, ma a capire chi vogliamo essere. Ci obbliga a fare i conti con la nostra responsabilità. A chiederci: cosa significa stare a guardare? Cosa significa restare in silenzio? E cosa accade quando la storia viene
raccontata solo da chi ha il potere di scriverla?
Forse ricordare la Nakba, oggi, significa imparare a guardare con occhi più umani.
Significa non lasciarsi convincere che esistano vite che valgono meno.
Significa dare valore alle piccole cose, come fa Darwish nella sua poesia: il pane caldo, una madre che canta, una risata che rompe il silenzio.
Sono questi gesti che tengono viva l’umanità anche nei luoghi più feriti.
E allora sì, la memoria diventa un atto d’amore.
Non per restare nel dolore, ma per riconoscere la vita anche dove sembra scomparsa.
Perchè ricordare è dire che tu sei esistito e la tua storia conta.
E’ un modo per restituire dignità a chi l’ha persa, per ridare nome a chi è stato dimenticato.
Forse, in fondo, è questo il nostro compito: non smettere mai di vedere.
Non smettere di ascoltare le voci che non si sentono più.
Non smettere di credere che, anche dopo la distruzione, qualcosa di bello possa ancora crescere.
E allora la vera domanda diventa: cosa ne facciamo di tutto questo dolore?
Lo lasciamo marcire dentro di noi, o lo trasformiamo in un modo nuovo di guardare?
Possiamo scegliere di non ripetere gli stessi errori e di scegliere la compassione al posto dell’indifferenza.
Perchè come scrive Darwish, “su questa terra c’è ciò che merita la vita”.
E forse il primo passo per meritarla davvero è imparare a non dimenticare.
A ricordare non per restare chiusi nel passato, ma per rendere il presente più giusto, più umano, più vero.
E allora sì, concludiamo dicendo che finchè qualcuno, da qualche parte, lotta per essere visto, ascoltato e ricordato, la storia non è finita.
Non lo sarà finché qualcuno, in qualsiasi luogo, continuerà a lottare per avere un volto, una voce e un ricordo.
È una lotta che chiede giustizia. Che chiede di riscrivere il passato. Che chiede, semplicemente, di essere umani.