Solidarietà ad Angelo D’Orsi e a Vincenzo Lorusso. Basta censure! Basta guerre!

Vogliamo esprimere piena solidarietà personale allo storico Angelo D’Orsi e al giornalista Vincenzo Lorusso, che non hanno potuto liberamente esprimere le loro opinioni in un dibattito pubblico, a Torino il 12 novembre, al Polo del ’900, organizzato dall’ Anppia locale.
La loro colpa: non essere russofobi. Gli inquisitori e giudici: Associazioni ucraine, Carlo Calenda, Pina Picierno, Stefano Lo Russo, Rosanna Purchia, i radicali italiani, i vertici nazionali Anppia. La sentenza: tacete putiniani.
Ci sarebbe da ridere per lo spettacolo messo in piedi da questa simpatica squadretta se non ci fosse da piangere sullo stato del rispetto dei diritti costituzionali In Italia.
Certo lo sanno già i sindacalisti denunciati per difendere i lavoratori, lo sanno già gli sfrattati buttati in mezzo alla strada per lasciare spazio alla speculazione edilizia, lo sanno già gli impoveriti privati del reddito di cittadinanza, i detenuti che si suicidano nelle carceri, gli immigrati sbattuti nei CPR, gli operai, gli edili, gli agricoltori che escono la mattina per essere uccisi sul lavoro, lo sanno i docenti scomodi nelle scuole. Lo sapevano già gli artisti russi in Italia.
Adesso lo sanno anche giornalisti e intellettuali militanti di fama internazionale. Tacete, vi controlliamo, siete in libertà vigilata.
La censura è sempre stupida perché suscita come reazione un’ondata di indignazione e di libertà. Ecco, allora alziamo le nostre voci e che un coro di vergogna sommerga quanti in nome di una presunta «loro» difesa della libertà tolgono tutti i giorni i «nostri» diritti di cittadini, di lavoratori, di studenti, di insegnanti, di pensatori, di scienziati, di artisti. Quando è troppo è troppo. Blocchiamo tutto!

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Claudio Torrero, testimonianza diretta dalla Flotilla

Mercoledi’ 19 Novembre, alle ore 18 presso Volere La Luna, Via Trivero 16, Torino, La Scuola Per La Pace incontrera’ Claudio Torrero, già docente di filosofia nella scuola superiore, diventato monaco buddhista col nome di Bhante Dharmapala e presidente di Interdependence (interdependence.eu), associazione attiva nell’ambito del dialogo interreligioso e interculturale. Giorgio Monestarolo coordinera’ l’evento.

Claudio Torrero raccontera’ la sua esperienza di partecipazione alla Sumud Flotilla, esprimendo il suo punto di vista e rispondendo alle domande del pubblico.

Le sue parole: “Ho preso parte alla missione della Flotilla (nella seconda spedizione, sulla nave Conscience) per richiamare l’attenzione mondiale sul genocidio in atto a Gaza, ma anche sulla catastrofe morale che si abbatte sull’ebraismo”.

QUI IL VIDEO DELL’INCONTRO OPPURE CLICCA SULL’IMMAGINE

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Codice etico per i PTOF

Al liceo Majorana di Torino è stato approvato dal Collegio docenti un Codice etico, da inserire nel PTOF, che prevede:
• di non stipulare convenzioni con soggetti coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale;
• una specifica approvazione del Collegio Docenti per l’attivazione di progetti o collaborazioni con le Forze Armate o con le Forze dell’Ordine, fatte salve le attività istituzionali attualmente già previste nel PTOF.
Tale documento è frutto del lavoro collettivo di un gruppo di docenti che, sentendo l’esigenza di affermare la vocazione della scuola italiana alla pace sulla base della Costituzione, si sono confrontati e hanno elaborato la proposta.

Di seguito la presentazione del Codice etico da parte della prof.ssa Cinzia Gallotti al Collegio docenti, a nome del gruppo promotore. Il terzo punto (“escludere dalle procedure di approvvigionamento di beni e servizi soggetti coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale”) è stato stralciato in quanto il DS lo ha considerato attinente alla normativa sugli appalti che non è di competenza del Collegio.

Le/i docenti possono ispirarsi a questo documento per sollecitare la discussione e il confronto su questi temi nei rispettivi Collegi, confronto che, secondo la Scuola per la pace, ha un valore in sé, indipendentemente dalla possibile approvazione. Già altre scuole stanno infatti predisponendo un analogo Codice etico che, pur non formalmente vincolante, rappresenta “un indispensabile atto di coerenza rispetto al senso del nostro lavoro” .
Segnalazioni a: lascuolaperlapace@gmail.com

Liceo Majorana di Torino. Informativa alle/i colleghe/i per la proposta di un Codice etico da inserire nel PTOF, di Cinzia Gallotti

“Noi pensiamo che, alla luce del terribile stravolgimento dei principi, che fino a poco tempo fa facevano da cornice alle nostre azioni come singoli e come parte di organismi nazionali ed internazionali, non possa più bastare un generico obiettivo formativo come lo sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, come scritto a pagina 12 del nostro attuale PTOF.
Dobbiamo chiederci, come Collegio, come difendere la nostra offerta formativa, anche rispetto ai soggetti esterni che entrano in contatto con noi.
Io e i colleghi, il cui elenco leggerete in calce, chiediamo che la scuola adotti un “codice etico”, in base al quale si decida di:
• non stipulare convenzioni con soggetti coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale;
• prevedere una specifica approvazione del Collegio Docenti per l’attivazione di progetti o collaborazioni con le Forze Armate o con le Forze dell’Ordine, fatte salve le attività istituzionali attualmente già previste nel PTOF;
• escludere dalle procedure di approvvigionamento di beni e servizi soggetti coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale.
La proposta sopra esposta mira evidentemente ad evitare che nella nostra scuola entrino aziende che producono direttamente armi o che ne siano indirettamente coinvolte (es. Leonardo), che la formazione scuola lavoro non sia un modo per consentire ai vari corpi dell’esercito di normalizzare con i nostri studenti la professione della guerra e l’uso delle armi e infine che non si appoggino aziende dalla condotta molto discutibile come Amazon, aderendo formalmente alle iniziative come “un click per la scuola”.
Sappiamo che un codice etico non ha forma, né forza di legge, è semplicemente una “promessa onorevole”, una scelta morale non solo individuale, ma collettiva.
A noi che lo proponiamo sembra anche un indispensabile atto di coerenza rispetto al senso del nostro lavoro”.


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Laboratorio sul Cinema Palestinese

Disastri e resistenze dell’immaginario – Percorso visivo attraverso brani del cinema palestinese – condotto da Maria Elena Marabotto e da Mauro van Aken, si terrà il 14 novembre 2025, ore 15 – 17 presso l’aula Magna del Liceo d’Azeglio, V. Parini 8, Torino.
Ci sono circa 200 posti.
Per la partecipazione preghiamo di compilare il form a questo link

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Scuola per la pace Torino e Piemonte in collaborazione con il Comitato Un aiuto per la Palestina sostiene la Scuola Al Salam di Gaza

Care amiche e cari amici,

come sappiamo, la Scuola per la pace ha sempre guardato al genocidio in Palestina dal punto di vista politico e culturale, con manifestazioni di piazza, appelli, presidi e progetti didattici, ma non ha trascurato la concreta solidarietà a favore di associazioni come ACS, Gazzella onlus e di famiglie palestinesi attraverso il Comitato Un aiuto per la Palestina, di cui fanno parte alcune/i di noi. Ora abbiamo deciso di sostenere il progetto di una scuola che si chiama Al Salam, la pace, a Gazache aprirà domani 8 novembre.

Organizzatore dell’iniziativa è Mosbah, infermiere molto attivo e intraprendente nella distribuzione di cibo, acqua, latte per bambini, medicine e persona di riferimento sul territorio. Conosciamo Mosbah attraverso il Comitato Un aiuto per la Palestina, con il quale interagisce quasi quotidianamente. Suo è il logo del Comitato stesso. Gli diamo piena fiducia per questa nuova iniziativa che ci mette in diretto contatto con una scuola a Gaza. Le donazioni verranno versate al Comitato Un aiuto per la Palestina che le farà pervenire, come di consueto, a Mosbah per questo scopo specifico.

Il progetto è strutturato come segue. Preghiamo di volerlo sostenere e divulgare.

A Gaza, da oltre due anni, bambine e bambini sono stati privati del diritto all’istruzione, a causa della distruzione di scuole e asili e della perdita di maestre e maestri, come in un episodio del documentario From Ground Zero.

Il progetto Scuola Al Salam di Gaza consentirà a 60 bambine e bambini dai 3 ai 12 anni di frequentare una scuola allestita in due tende. Si vuole così garantire loro il percorso scolastico curricolare ed evitare i rischi che corrono per strada, in giro tra tende e macerie.

Il progetto educativo dovrebbe essere autorizzato dal Ministero dell’Educazione e dell’Istruzione Superiore dello Stato della Palestina e avrà una durata di quattro mesi (corrispondente al nuovo ciclo scolastico dall’inizio del genocidio). La scuola, collocata all’interno di uno dei campi nella striscia di Gaza, sarà aperta quattro giorni la settimana per sette ore al giorno (dalle 7.00 alle 14.00) e ruoterà su due turni di tre ore con una presenza di 30 studenti per turno: fino a 5 anni sarà scuola per l’infanzia, da 6 a 12 sarà scuola di primo ciclo. Verranno coinvolti due insegnanti che svolgeranno tutte le discipline (Lingua araba, Matematica, Scienze, Salute, Lingua inglese, Tecnologia).

Il progetto prevede due fasi.
Fase 1.
· Acquisto e montaggio di due tende.
· Acquisto e allestimento delle tende con sedie, tavoli e materiale di cancelleria.
Costo € 1.800

Fase 2.
· Aquisto di libri, quaderni e penne.
· Acquisto di prodotti alimentari per colazioni e merende
· Produzione di documenti per l’esame annuale
· Rimborso spese per insegnanti
Costo mensile 750 €
Costo totale 4800 €

Chiediamo il contributo di tutte e di tutti per realizzare questo progetto che, come Scuola per la pace, ci impegniamo a sostenere e accompagnare seguendone le fasi e gli esiti.

CONTO CORRENTE UN AIUTO PER LA PALESTINA Banca Territori del Monviso
IBAN IT 76 A 08833 01003 000000013283
Causale: Scuola Al Salam

Satispay: https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN–19FF359D-701C-4FB9-A522-F50008F5E53E?locale=it
Causale: Scuola Al Salam

Per info: lascuolaperlapace@gmail.com

la distruzione delle scuole a Gaza

il progetto per La Scuola Al Salam di Gaza

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Lettera aperta alla Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza

La Scuola per la pace Torino e Piemonte ha aderito alla lettera aperta che le 10, 100,1000 Piazze di Donne per la PACE invieranno alla Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza perché condividiamo la preoccupazione profonda per la militarizzazione dell’infanzia che pervade i messaggi rivolti a bambine e bambini: “la guerra come spettacolo, la divisa come modello, le armi come gioco”. Da anni, con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, denunciamo questi episodi e invitiamo docenti e genitori a educare alla pace e non alla normalizzazione della guerra.

Gentile Garante,
le scriviamo per esprimere una preoccupazione profonda e crescente rispetto alla diffusione, nel linguaggio pubblico e nelle pratiche educative, di modelli e messaggi che tendono a normalizzare la guerra e a legittimare il militarismo come orizzonte culturale anche per le bambine e i bambini.
Siamo donne in tante realtà italiane nella promozione e diffusione dei principi sanciti dalla nostra Costituzione che all’articolo 11 ripudia la guerra come strumento di offesa e di risoluzione dei conflitti internazionali.
E’ da questa prospettiva che nasce la nostra inquietudine di fronte a iniziative che propongono la guerra come spettacolo, la divisa come modello, le armi come gioco, come è avvenuto nel cosiddetto “Villaggio dell’Esercito”, allestito dal 2 al 5 ottobre a Palermo in piazza Politeama, trasformata in un grande spazio promozionale delle forze armate.
Sui giornali e sui social abbiamo visto circolare immagini di bambine e bambini che imbracciano armi, salgono su mezzi bellici: immagini che, dietro la forma ludica della curiosità e dell’intrattenimento, introducono l’infanzia a un immaginario di guerra presentato come normale, innocuo, persino desiderabile.
Sappiamo inoltre che eventi simili si sono tenuti in altre città italiane, con modalità analoghe.
Esporre l’infanzia al linguaggio e ai simboli della guerra, anche sotto le vesti del gioco o della festa, significa introdurre la violenza come linguaggio accettabile e rinunciare all’educazione alla pace che non si insegna attraverso l’esaltazione delle armi, ma attraverso la cura, la cooperazione, la responsabilità condivisa.
Anche la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza richiama con forza questi principi: dove afferma che ogni bambino/a ha diritto a un’educazione orientata alla pace, alla solidarietà e alla comprensione fra i popoli, al gioco libero da violenza e condizionamenti ideologici.
Per queste ragioni, le rivolgiamo un richiamo al ruolo istituzionale che le è affidato, chiedendo che episodi come questo vengano riconosciuti nella loro gravità simbolica ed educativa e considerati in contrasto con la tutela dei diritti dell’infanzia.
Difendere l’infanzia significa difendere la possibilità stessa di un futuro di pace. Significa riconoscere che la cultura della cura, della relazione e della responsabilità condivisa è la sola via capace di generare sicurezza autentica, dentro e fuori di noi.
Ed è a questa sicurezza, non a quella delle armi, che vogliamo continuare ad educare.

10 100 1000 Piazze di Donne per la Pace

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4 Novembre disobbediente

Ieri, 4 novembre è stata una giornata disobbediente per la Scuola per la pace.
La mattina alcune/i di noi sono riuscite/i a seguire il convegno, pur non certificato, La scuola non va alla guerra. L’educazione alla pace risponde alla repressione, con cui l’Osservatorio ha neutralizzato la intimidatoria censura di Valditara al precedente convegno organizzato dall’Osservatorio e dal CESTES . La scuola non si è fatta silenziare e il convegno ha registrato circa 2200 visualizzazioni. Nel pomeriggio abbiamo partecipato al presidio presso l’USR, dove docenti e studenti, forse per la prima volta, hanno saldato le loro istanze in un discorso politico comune contro la militarizzazione delle scuole, le guerre e i genocidi, le politiche di riarmo, la censura e la repressione del dissenso a favore di un futuro di pace, libertà e giustizia. La delegazione di docenti e studenti che è salita a conferire con il direttore generale ha espresso in modo corale queste istanze condivise. Le risposte del direttore generale, pur formali, ci danno utili indicazioni: ai docenti è stato detto che gli interventi di militari nelle scuole possono essere proposti dall’USR, ma che le scelte didattiche sono decise negli organi collegiali: Collegi docenti e consigli di classe. Dunque è necessario che le/i docenti riprendano il proprio ruolo, pretendendo che le scelte didattiche non siano imposte e che i progetti militaristi vengano presentati negli organi collegiali, per poterli discutere e contrastare. Agli studenti è stata offerta una generica disponibilità all’ascolto: dunque è necessario che le/gli studenti continuino la lotta, che è anche la nostra, per conquistare spazi di autonomia e agibilità politica nel mondo della scuola.

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Elaborato sulla storia della Palestina: il punto di vista delle studentesse

Chiara, docente al Galfer tra le promotrici del documento Gaza now!, ha condotto uno splendido lavoro con una sua classe e ci invia un elaborato di grande pregnanza:

Questo testo è stato scritto da cinque ragazze di una quarta liceo scientifico di Torino. È frutto di una loro rielaborazione e riflessione profonda a partire da alcune lezioni tenute da me in classe sulla storia della Palestina, come storia di colonialismo insediativo e di sradicamento di un popolo, dalla terra su cui viveva da millenni. Fino al genocidio e all’espulsione di oggi. Si intrecciano termini come memoria, dolore, testimonianza, speranza, amore per la terra e per la vita, giustizia, ritorno: parole che coinvolgono pensiero ed emozioni, soprattutto perché scritte da giovani capaci di credere, ed impegnarsi per un mondo diverso di giustizia, convivenza, solidarietà e pace.

Alunni: Ilaria, Sara, Amina, Bianca, Miranda, IVD

Elaborato

E’ estremamente importante ricordare ciò che è accaduto, e che sta tutt’oggi succedendo, in Palestina dopo il secondo conflitto mondiale; hanno tentato di nascondere ogni cosa, ma alla fine la verità emerge sempre. Il nostro lavoro si basa sul domandarci delle questioni: può una frase cancellare un popolo?
A primo impatto sembra impossibile; una frase è solo un insieme di parole, un modo per raccontare un’idea, per riassumere un progetto; tuttavia ci accorgiamo che alcune frasi non si limitano a descrivere il mondo: lo ricreano.
“Una terra senza popolo per un popolo senza terra.” A prima vista è solo uno slogan politico. Ma se ci fermiamo a studiarla nel dettaglio, scopriamo che dentro nasconde un intero sistema di potere.
Dire che una terra è “senza popolo” non è mai un’osservazione neutra: è un atto di cancellazione, è il gesto con cui si toglie il nome, poi la voce, e infine la casa.
Michel Foucault, filosofo e sociologo francese, ci ha insegnato che il linguaggio non è solo comunicazione, ma potere: chi definisce la realtà, la domina. E questa frase, nata
nell’Europa di fine Ottocento, ha avuto la forza di plasmare il destino di un intero popolo.
Ci chiediamo: cosa succede quando le parole diventano armi? Quando una frase determina che qualcuno, da un giorno all’altro, “non esiste”? Forse è da qui che dobbiamo cominciare
per capire la Nakba, la catastrofe del popolo palestinese nel 1948.
Nel 1948 nasce lo Stato d’Israele e per il popolo ebraico è il momento dell’indipendenza, del ritorno, della rinascita, mentre per un altro popolo, quello palestinese, è l’inizio della catastrofe.
Oltre 700.000 persone sono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni o vengono espulse con la forza.
Centinaia di villaggi vengono distrutti e rasi al suolo. Alcuni spariscono completamente dalle mappe, altri vengono rinominati, come se cancellare il nome potesse cancellare la memoria.
Gli ulivi vengono sradicati, le pietre delle case utilizzate per costruirne di nuove.
Eppure, anche se la Nakba si è verificata più di settant’anni fa, non è mai finita del tutto.
Ancora oggi infatti esistono milioni di rifugiati palestinesi, molti dei quali nati in esilio.
Hannah Arendt, dopo aver vissuto in prima persona l’esilio e la persecuzione, ha scritto parole che ancora oggi ci fanno riflettere, parlando della “perdita del diritto ad avere diritti”.
Questo pensiero restituisce con schiacciante verità l’atroce sofferenza dei rifugiati, rivelando il peso della perdita dei diritti, compresi quelli umani inviolabili, come il diritto alla vita e alla libertà.
Cosa significa, davvero, perdere il diritto ad avere diritti? Significa che non si ha più luogo dove quei diritti possono essere riconosciuti, non è solo la perdita di una casa, di una terra, ma di qualcosa di più profondo: la perdita di appartenenza.
Quando nessuno Stato ti riconosce come cittadino, vieni estromesso dall’esistenza politica: resti sospeso tra la memoria di ciò che eri e l’incertezza di ciò che potrai essere. Non appartieni più ad una comunità, non hai più un posto nel mondo condiviso. Sei semplicemente un essere umano, ma senza un luogo dove poter esistere. Ed è proprio questo, secondo Arendt, il più grande scandalo della modernità.

E allora viene spontaneo chiedersi:
Come si sopravvive a una vita senza luogo?
Come si costruisce un’identità quando la terra che ti ha generato ti è stata tolta?
Chi sei, se non appartieni più a nessuno spazio, se nessuno Stato pronuncia il tuo nome come “uno dei nostri”?
Per i palestinesi, dopo quanto avvenuto nel 1948, questo è diventato la quotidianità,non si tratta solo della nostalgia per la casa perduta, ma anche del fatto di essere continuamente “fuori posto”, rifugiati nei campi, sospesi tra frontiere, tra documenti provvisori e identità
frammentate. E’ un’esistenza fatta di limiti che possiamo definirli invisibili: non poter tornare, non poter appartenere, non poter dire “questa è la mia terra”.
Arendt direbbe che in quella perdita non c’è solo ingiustizia, ma è un segnale d’allarme: quando un popolo perde il diritto ad avere diritti, tutti noi siamo più fragili.
Ciò significa che i diritti non sono davvero universali, ma dipendono dal riconoscimento
politico, dal potere, dalle mappe, dai confini. E allora i diritti non sono più “dell’uomo”, ma del
cittadino, e chi resta fuori da quella categoria, resta invisibile.
E allora ci chiediamo: può esistere l’umanità se ci sono persone senza diritti?
Può una civiltà definirsi giusta se accetta che milioni di individui vivano senza patria, senza
protezione, senza nome?
La riflessione di Arendt, in fondo, è un invito a guardare il mondo con occhi più responsabili.
Non basta dire “poveri rifugiati”: bisogna capire che ciò che accade a loro riguarda anche a
noi; ogni volta che un popolo viene reso invisibile, la nostra idea stessa di umanità si
indebolisce.
Perciò la Nakba non è solo un evento storico: è una ferita aperta per i palestinesi ma anche
per l’intera cittadinanza umana. Ogni campo profughi, ogni documento negato, ogni bambino
che cresce senza patria, ci ricorda che i diritti non sono mai garantiti per sempre, che vanno
difesi ogni giorno, per tutti.
E forse è proprio da qui che nasce la vera domanda: non è solo “come si vive senza radici?”
ma anche “cosa succede al mondo quando lascia che qualcuno le perda?”.
Cerchiamo di immaginare un villaggio palestinese prima del 1948.
Le case in pietra, gli ulivi che fanno ombra, le donne che stendono il bucato, i bambini che
corrono tra le strade. Tutto sembra immobile, quotidiano. Poi, in pochi giorni, tutto cambia.
Le case si svuotano, le famiglie scappano, i nomi spariscono. Molti di quei villaggi oggi non esistono più. Non sono stati solo distrutti, ma anche cancellati: rasi al suolo, ricoperti, rinominati. Al loro posto sorgono nuove città e basi militari. Come se cancellare il passato
potesse rendere più “puro” il presente.
E qui nasce la domanda difficile: perchè si cancella?
Forse per paura. Forse perché è più facile costruire qualcosa di nuovo se si finge che prima
non ci sia stato niente.
Forse perché accettare che qualcuno c’era, che viveva, amava, pregava, sperava, obbligherebbe a fare i conti con una colpa.
Ma cancellare non è mai qualcosa di neutro. E’ una violenza che lascia silenzio. Togliere un nome, cambiare una mappa, sradicare un ulivo: sono gesti che vogliono dire “non sei mai esistito”.
Eppure proprio in quel tentativo di cancellazione, nasce la resistenza della memoria.
Anche se le mappe non li segnano più, quei villaggi vivono ancora nella mente di chi li ha abitati. I genitori raccontano ai figli dove stava la casa, dove passava la strada, dove crescevano i fichi. Le chiavi delle porte, portate via durante la fuga, vengono considerate
come reliquie. Sono pezzi di un mondo scomparso, ma anche prove di un’esistenza che nessuno può mai negare, neanche Netanyahu.
E allora ci chiediamo: può davvero sparire un luogo se qualcuno continua a ricordarlo?
Forse no. Forse la memoria è più potente della geografia.
C’è qualcosa di profondamente ingiusto in questa logica del “cancellare per esistere”.
Per un popolo nuovo, costruire la propria identità è diventato possibile solo togliendo quella dell’altro e questo dovrebbe farci riflettere: può un’esistenza fondarsi sull’assenza di un
altro? Può esserci vera libertà se nasce dalla negazione di qualcun’altro?
La verità è che cancellare non distrugge, lascia solo ferite aperte. Le pietre dei villaggi demoliti, riutilizzate per costruire case nuove, sono come testimoni muti. Le radici degli ulivi sradicati crescono, a volte in mezzo all’asfalto, come se la terra stessa rifiutasse di
dimenticare.
La cancellazione, alla fine, non è solo fisica: è anche simbolica.
E’ un tentativo di riscrivere la storia, di dire “qui non c’era nessuno”. Ma ogni volta che un nome viene tolto da una mappa, resta una voce che lo pronuncia a voce bassa, una memoria che si lascia cancellare.
E forse è proprio per questo che spaventa chi cancella: il fatto che la memoria, anche quando sembra fragile, sopravvive.
Ci sono storie che restano sepolte per anni, come se il tempo potesse davvero coprirle.
Tantura è una di queste.
Un piccolo villaggio palestinese, come tanti altri, cancellato nel 1948. Case distrutte, famiglie disperse e, secondo molte testimonianze, un massacro che per decenni nessuno ha voluto ricordare.
Per molto tempo, Tantura è stata rimossa dalla memoria collettiva: assente dai libri di storia
e ignorata nei discorsi ufficiali, come se non fosse mai esistita.
Ma la memoria, si sa, non obbedisce alle regole del silenzio. Resta lì, nascosta, pronta a
riemergere quando qualcuno trova il coraggio di ascoltarla.
E’ quello che è successo con il documentario “Tantura”.
Un documentario che non urla, ma dice la verità. Racconta di come lo storico israeliano
Teddy Katz, raccogliendo testimonianze di ex soldati e sopravvissuti, ha scoperto una vita
scomoda: che in quel villaggio è avvenuto un massacro, poi negato, dimenticato, riscritto.
Quando Katz lo ha raccontato, venne screditato, messo a tacere. Perchè? Forse perché
riconoscere il dolore dell’altro è la cosa più difficile che si possa fare.
Ammettere che un’ingiustizia è avvenuta non è solo un atto storico, ma anche umano.
Significa guardarsi dentro e accettare che la propria identità può avere delle ombre.
E non tutti riescono a farlo. Non tutti riescono a dire: “Sì, anche noi abbiamo fatto del male”
per non danneggiare la propria immagine di Paese più morale del Mondo. Come spiega Ilan
Pappé la storia che Israele ha sempre raccontato a sé stesso e agli altri è quella di una
nazione pura, nata dal bisogno di giustizia, un piccolo Davide coraggioso che si è sempre
difeso da un mondo ostile. Ma questa storia nasconde una verità difficile da ammettere.
Mentre Israele celebrava la sua nascita, oltre 750.000 palestinesi venivano cacciati dalle loro
case e dalle loro terre. Questo evento, che i palestinesi chiamano Nakba, è la parte della
storia che manca in quella ufficiale israeliana. Pappé sostiene che, per mantenere intatta la
propria immagine di nazione morale, Israele ha dovuto cancellare questo ricordo, trattandolo
come se non fosse mai accaduto o come se fosse stato necessario per difendersi dagli
Arabi che loro chiamano animali. Ammettere di essere nati da un atto di “pulizia etnica”,
come lo definisce lui, farebbe crollare l’intero edificio morale su cui si basa lo Stato.
Pappé spiega che l’identità ebraico-israeliana è costruita sull’essere stati vittime per secoli.
La paura più grande è guardarsi allo specchio e scoprire di essere diventati il contrario: degli
oppressori. Perdere lo status di vittima e riconoscere di essere la causa della sofferenza di
un altro popolo sarebbe, secondo Pappé, psicologicamente devastante per la coscienza
dell’intero Paese.
Come si ci sente a sentirsi sempre nella parte della ragione mentre si occupa militarmente un altro popolo?
Pappé spiega che si attiva un meccanismo di difesa molto potente: la disumanizzazione. Se si smette di vedere i palestinesi come persone con sogni, famiglie, diritti e una storia, e si inizia a descriverli solo come un “problema demografico”, una “minaccia per la sicurezza” o
“terroristi”, diventa molto più semplice giustificare quelle azioni e in questo modo la coscienza può rimanere pulita e l’idea di nazione “pura” può continuare a vivere.
E allora ci chiediamo: perché è così difficile ascoltare il dolore dell’altro?
Forse perché la memoria non è mai neutrale, infatti Israele sceglie cosa ricordare (la propria sofferenza) e cosa cancellare (il dolore altrui).
Ricordare significa scegliere da che parte stare, o almeno ammettere che una parte è rimasta fuori dal racconto.
Ma è solo accettando anche quella parte che possiamo davvero capire.
Il documentario su Tantura ci insegna una cosa semplice ma fondamentale: il silenzio non guarisce, nasconde, negare la memoria non protegge, ma avvelena e la verità, anche se fa paura, è l’unica strada per la riconciliazione.
Forse il senso più profondo di questa storia è proprio questo: la memoria non appartiene a un popolo solo. E’ qualcosa che ci riguarda tutti.
Ogni volta che un dolore viene taciuto, la nostra umanità si spegne un po’. Ogni volta che qualcuno trova il coraggio di raccontare, la storia torna a respirare.
Mentre tutto questo accadeva, il mondo guardava.
O forse faceva finta di vedere.
Nel 1948, quando è nato lo Stato di Israele, gran parte dell’Occidente ha visto in esso una risposta giusta dopo l’orrore della Shoah. Ma nel tentativo di riparare un dolore, ne hanno ignorato un altro.
La nascita di un popolo significa, per un’altro, l’inizio dell’esilio. Così, la gioia di alcuni è diventata il silenzio di altri.
Dopo la Seconda guerra mondiale le tensioni tra Israele e Palestina si sono trasformate in qualcosa di più grande: un campo di battaglia politico, perfino ideologico.
Durante la Guerra Fredda, il conflitto in Medio Oriente è diventato una scacchiera su cui le grandi potenze giocano le loro mosse.
Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non videro più persone, ma alleati e nemici e gli stessi USA, per contenere l’influenza sovietica, decisero di legarsi ad Israele. Lo armarono, lo finanziarono, lo raccontarono come il “Paese della libertà” in una regione instabile.
Dall’altra parte, l’Unione Sovietica cercò appoggio nei Paesi Arabi, spingendoli contro Israele, ma senza mai impegnarsi davvero a difenderli.
Così, anche la tragedia è diventata uno strumento nelle mani dei potenti.
I Paesi Arabi stessi, come Egitto, Siria, Iraq, usarono a volte il conflitto per rafforzare il consenso interno, per distrarre i propri cittadini da crisi e ingiustizie.
Il risultato è stato che, mentre i governi discutevano, i palestinesi continuavano a vivere nei campi profughi, senza casa, senza diritti, senza voce.
E oggi, dopo più di settant’anni, la situazione non è così diversa.
Il conflitto è diventato anche un’arma mediatica. Politici, aziende e persino miliardari usano il tema di Israele e Palestina per guadagnare voti, influenza, visibilità.
Si creano campagne pubblicitarie, messaggi mirati, parole che cambiano forma a seconda di chi le deve ascoltare. E’ lo stesso meccanismo di allora: cambiare il linguaggio per cambiare
la verità.
E allora viene spontaneo chiedersi: il mondo guarda davvero, o guarda solo ciò che gli conviene vedere?
Perchè mentre le potenze parlano di “alleanze”, “sicurezza” o “stabilità”, milioni di persone continuano ad essere bombardate, a vivere tra i muri, check-point e campi profughi.
Come si può parlare di pace, se non si parla mai di giustizia?
Forse la pace non è solo la fine della guerra, ma il ritorno alle radici.
Il ritorno a quel legame invisibile che ognuno di noi ha con la sua terra, con i luoghi che ci hanno cresciuto.
Perché quando perdi la tua casa, non perdi solo dei semplici muri: perdi una parte di te.
Perdi i suoni, gli odori, le abitudini. Perdi l’appartenenza e senza di essa, la vita si spezza in due: da una parte c’è ciò che eri, dall’altra ciò che non puoi più essere.
Simone Weil, filosofa francese, dice che l’essere umano ha bisogno delle radici come gli organi del corpo. Le radici non sono solo terra, sono il senso, sono la dignità.
Essere “radicati” significa sapere da dove vieni e sentire che quel luogo ti riconosce.
Perdere le radici, invece, significa smettere di esistere agli occhi del mondo.
E’ quello che accade ai rifugiati palestinesi: sono vivi, ma spesso invisibili.
Non hanno un luogo da cui trarre forza, eppure continuano a portarlo dentro.
E allora ci chiediamo: come si vive sapendo di appartenere a un posto che non ti appartiene più? Come si fa a restare umani quando tutto intorno ti dice che non conti, che non esisti, che la tua storia non vale?
Qui entra in gioco anche Frantz Fanon, psichiatra francese, che ci ha insegnato che la colonizzazione non è solo occupazione di terre, ma anche della mente.
Quando viene sottratta la terra, si insinua anche l’idea di non averla mai meritata. Si comincia a dubitare di sé, della propria lingua, della propria cultura.
Ma Fanon ci ricorda anche un’altra cosa: la liberazione inizia quando il silenzio si rompe,quando cioè chi è stato colonizzato smette di credere alla voce del dominatore e torna a credere alla propria. E’ solo adesso che la memoria diventa un’arma non violenta,
ma potentissima. Non per vendicarsi, ma per guarire.
Simone Weil e Fanon, pur venendo da mondi diversi, ci parlano della stessa verità: che un essere umano senza radici è come un albero tagliato alla base, può ancora vivere un po’, ma prima o poi si secca.
I palestinesi, con la loro lingua, le loro poesie, le chiavi conservate, ne sono la prova.
Le radici non servono solo a ricordare il passato, ma a resistere nel presente.
E la ferita più grande non è quella del corpo, ma quella dell’anima: quella di chi è
consapevole di appartenere a un luogo che gli è stato tolto.
Forse allora la giustizia non è solo restituire una terra, ma riconoscere un’esistenza.
Riconoscere che ogni popolo, ogni persona, ha diritto di sentirsi “a casa” da qualche parte.
Perchè non c’è pace possibile se qualcuno, ancora oggi, è costretto a vivere senza radici e senza voce.
E allora la memoria diventa l’unico luogo dove poter tornare.
quando la terra ti viene tolta, la memoria diventa la tua casa.
E’ lì che continui a esistere, anche se il mondo finge di non vederti.
La memoria è una forma di resistenza silenziosa.
Non ha bisogno di armi, ma di parole, di ricordi, di gesti.
E’ tramandare una storia, un profumo, una lingua.
E’ dire “io c’ero” anche quando ti vogliono cancellare.
Frantz Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non toglie solo la terra, ma anche la fiducia in sé stessi. Ti fa credere di non meritare la libertà, ti convince che la tua cultura
valga meno, che la tua voce sia troppo piccola per essere ascoltata.
E’ una violenza che entra dentro, che spegne la persona piano piano.
Ma la liberazione inizia proprio lì, quando quel silenzio si rompe. Quando chi è stato cancellato ricomincia a raccontarsi.
E come ho già detto prima, la memoria non serve per vendicarsi, ma per guarire. E in questa guarigione entra la poesia.
Perchè la poesia è la memoria che respira, è la parola che tiene in vita ciò che la storia prova a dimenticare.
Mahmoud Darwish, poeta palestinese, ha scritto versi che non parlano di odio o di guerra, ma di amore per la vita.
Nella sua poesia “Su questa terra/َ ْرضv َھ ِذ ِه اkmَ n”, ricorda che, anche nel dolore più grande, esistono ancora cose che meritano di essere vissute: l’aroma del pane fresco, il ricordo del primo amore, una madre che canta, la bellezza di settembre, una donna che ride.
Tutte le cose piccole, ma immense.
E poi, alla fine, Darwish scrive:
“Su questa terra c’è ciò che merita la vita…
Si chiamava Palestina.
Continua a chiamarsi Palestina”
E’ un verso che non chiede pietà, ma riconoscimento.
Non parla di vendetta, ma di dignità.
Dice che anche chi è stato privato di tutto merita di vivere, di amare, di appartenere.
La poesia, in questo senso, diventa una casa per chi non ha una casa, una patria fatta di parole, un modo per dire che loro esistono ancora.
E forse è proprio per questo il valore più profondo della memoria:
non lasciare che il dolore cancelli la bellezza,
non lasciare che la rabbia uccida la speranza,
non lasciare che la storia venga scritta solo dai vincitori.
Ricordare non significa restare fermi nel passato, ma continuare a scegliere la vita, anche quando la vita sembra ingiusta.
Significa credere che, nonostante tutto, su questa terra c’è ancora qualcosa che merita di essere amato. Finché ricordiamo e le parole non si perdono, c’è la possibilità di ottenere una giustizia migliore.
Concludiamo dicendo che, forse, la storia non si misura solo con le date o con le guerre vinte, ma con le ferite che restano aperte.
La Nakba non è solo un evento del passato, è una condizione dell’anima.
E’ l’impossibilità di tornare, ma anche la forza di non smettere di ricordare.
E’ la prova che un popolo può essere scacciato dalla sua terra, ma non dal suo nome.
E allora ci chiediamo: che cosa significa davvero “avere una patria”?
E’ solo un confine, una bandiera, un documento?
O è qualcosa che ci portiamo dentro, che fa parte di noi, del nostro modo di amare, sognare e resistere?
Forse avere una patria significa avere un posto dove non devi giustificare la tua esistenza. E finché anche una sola persona non ha quel posto, nessuno può dirsi davvero libero.
Il mondo continua a parlare di “pace”, ma a volte sembra che non sappia più cosa significhi.
Perchè la pace non è solo assenza di guerra, è la presenza di giustizia, di ascolto, di riconoscimento. E’ poter dire “io esisto” senza paura.
E ci chiediamo: quante persone nel mondo, oggi, non possono ancora dirlo?
Ci siamo abituati a vedere la sofferenza come qualcosa di lontano, come immagini da uno schermo.
Ma ogni volto che vediamo, ogni casa distrutta, ogni nome cancellato, è una storia che ci riguarda. Perchè la disumanizzazione di una persona diventa, lentamente, la disumanizzazione di tutti.
E se impariamo a voltare lo sguardo di fronte a un’ingiustizia, finiamo per non vedere più nessuna.
La memoria, allora, non serve solo a ricordare ciò che è accaduto, ma a capire chi vogliamo essere. Ci obbliga a fare i conti con la nostra responsabilità. A chiederci: cosa significa stare a guardare? Cosa significa restare in silenzio? E cosa accade quando la storia viene
raccontata solo da chi ha il potere di scriverla?
Forse ricordare la Nakba, oggi, significa imparare a guardare con occhi più umani.
Significa non lasciarsi convincere che esistano vite che valgono meno.
Significa dare valore alle piccole cose, come fa Darwish nella sua poesia: il pane caldo, una madre che canta, una risata che rompe il silenzio.
Sono questi gesti che tengono viva l’umanità anche nei luoghi più feriti.
E allora sì, la memoria diventa un atto d’amore.
Non per restare nel dolore, ma per riconoscere la vita anche dove sembra scomparsa.
Perchè ricordare è dire che tu sei esistito e la tua storia conta.
E’ un modo per restituire dignità a chi l’ha persa, per ridare nome a chi è stato dimenticato.
Forse, in fondo, è questo il nostro compito: non smettere mai di vedere.
Non smettere di ascoltare le voci che non si sentono più.
Non smettere di credere che, anche dopo la distruzione, qualcosa di bello possa ancora crescere.
E allora la vera domanda diventa: cosa ne facciamo di tutto questo dolore?
Lo lasciamo marcire dentro di noi, o lo trasformiamo in un modo nuovo di guardare?
Possiamo scegliere di non ripetere gli stessi errori e di scegliere la compassione al posto dell’indifferenza.
Perchè come scrive Darwish, “su questa terra c’è ciò che merita la vita”.
E forse il primo passo per meritarla davvero è imparare a non dimenticare.
A ricordare non per restare chiusi nel passato, ma per rendere il presente più giusto, più umano, più vero.
E allora sì, concludiamo dicendo che finchè qualcuno, da qualche parte, lotta per essere visto, ascoltato e ricordato, la storia non è finita.
Non lo sarà finché qualcuno, in qualsiasi luogo, continuerà a lottare per avere un volto, una voce e un ricordo.
È una lotta che chiede giustizia. Che chiede di riscrivere il passato. Che chiede, semplicemente, di essere umani.



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Il 4 novembre non è la nostra festa!

«Patria si fa chiamare lo Stato ogni volta che si accinge a uccidere»
F. Dürrenmatt

Il 1 marzo 2024 il governo ha approvato la legge di istituzione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate e il 4 novembre, ricorrenza della fine del primo conflitto mondiale, in cui le scuole vengono invitate a promuovere e partecipare a eventi e celebrazioni che esaltano l’unità nazionale, la difesa della patria e il ruolo delle Forze Armate.
Diversamente da quanto vorrebbe imporci una propaganda bellica insistente, la Scuola per la Pace ritiene che nella giornata del 4 novembre ci sia ben poco da celebrare, men che meno le Forze Armate e l’Unità nazionale.
La prima guerra mondiale fu una tragedia di proporzioni immani: circa dieci milioni di caduti sui campi di battaglia, oltre sei milioni e mezzo di civili deceduti per cause direttamente riconducibili al conflitto, almeno un’altra decina di milioni di vittime tra feriti e dispersi. La drammaticità dell’ecatombe nulla ha a che fare con la retorica della «difesa della Patria», espressione grottesca – se riferita al primo conflitto mondiale.
Sin dalle premesse la partecipazione italiana al conflitto ha ben poco di glorioso e molto di cui vergognarsi. Nel maggio del 1915, facendo leva sulla campagna di agitazione nelle piazze promossa dai nazionalisti, il governo italiano di Salandra obbliga di fatto il Parlamento ad approvare a scatola chiusa l’ingresso in guerra a fianco dell’Intesa. A Londra, poche settimane prima, gli emissari governativi italiani avevano siglato un patto segreto con la Francia e la Gran Bretagna. Sono mere ragioni di espansionismo imperialista a trascinare il paese – la cui opinione pubblica era in prevalenza schierata per la neutralità – in una guerra di aggressione travestita da lotta di liberazione nazionale. Altro che «difesa della Patria»!
E così, grazie a una sorta di colpo di Stato, ordito da monarchia e governo, l’Italia, al pari delle grandi potenze europee, può partecipare al massacro: un tripudio per il settore industriale che vedrà moltiplicati esponenzialmente i profitti, una tragedia per le classi subalterne di tutta la penisola. La guerra, ieri come oggi, è un affare economico per chi la promuove e la celebra.
Ai milioni di soldati di leva, inviati al fronte come carne da cannone, si sommano lavoratrici e lavoratori dell’industria che, nelle fabbriche militarizzate, sono costretti a subire il duro disciplinamento imposto dall’economia di guerra. È sospesa la libertà di organizzazione sindacale, sono cancellate le conquiste sociali dei decenni precedenti: perché la guerra, ieri come oggi, significa compressione dei diritti.
Il disprezzo della vita umana mostrato dalle alte gerarchie dell’esercito è evidente. Alle offensive suicide volute da Cadorna, in cui muoiono centinaia di migliaia di soldati per avanzare di qualche manciata di metri, si sommano le circolari in cui si autorizza la decimazione o la punizione collettiva dei reparti che non si mostrano abbastanza coraggiosi. I disertori catturati sono fucilati dai carabinieri appostati alle spalle del fronte. In guerra, ieri come oggi, i diritti dell’individuo sono annientati in nome di una presunta ragion di stato.
Ma si soffre anche nelle retrovie, dove la popolazione civile è stremata dal razionamento e dai ritmi massacranti di lavoro nelle fabbriche. Nell’agosto del 1917 a Torino scoppiano rivolte popolari guidate da donne e giovani che chiedono “pane e pace”, sfidando la forza pubblica che uccide decine di manifestanti. La guerra, ieri come oggi, scarica i suoi costi sulla povera gente.
Nell’ottobre del 1917, per prevenire ulteriori rivolte, un decreto governativo introduce il “reato di disfattismo” che vieta di esprimere pubblicamente considerazioni negative sull’andamento della guerra e impedisce di criticare il governo. Già dall’inizio del conflitto erano entrati in vigore la censura sui giornali e il controllo capillare della corrispondenza. Cessa così di esistere la libertà di espressione in nome dell’interesse nazionale: perché la guerra, ieri come oggi, significa reprimere il dissenso, soffocare il pluralismo.
Ancora peggiore è l’eredità della guerra: un vero e proprio trauma collettivo. L’esaltazione istituzionale della violenza, coltivata durante il conflitto, sarà il brodo di coltura del nascente fascismo. Il mito dannunziano della “vittoria mutilata”, la celebrazione dei caduti come “martiri della patria”, la retorica della “aristocrazia delle trincee”, l’odio contro i “nemici della nazione” sono i pilastri su cui si fonda una buona parte del discorso fascista. La guerra cancella così ogni sfumatura nel dibattito pubblico, tutto è ridotto alla logica binaria “amico/nemico”.
Sono queste solo alcune delle ragioni storiche che, in occasione del 4 novembre, ci impediscono, come insegnanti, di celebrare acriticamente l’Unità nazionale e le Forze armate. Alla retorica della patria, astratta e istituzionale, preferiamo gli appelli concreti per la pace pronunciati dal socialista francese Jean Jaurès, assassinato alla vigilia dell’ingresso in guerra del suo paese. Ci piace presentare ai nostri studenti la concretezza della prosa di Erich Maria Remarque, strappato dai banchi di scuola e scaraventato, ancora diciottenne, sul fronte occidentale. Amiamo consigliare la visione di Uomini contro di Francesco Rosi, una pellicola a lungo accusata di “vilipendio delle forze armate”, ma, di fatto, direttamente ispirata all’opera memorialistica di Emilio Lussu, giovane ufficiale volontario che imparò sul campo di battaglia l’assurdità della guerra. E ancora, nelle nostre riflessioni pedagogiche, ci ispiriamo a Célestin Freinet ferito nella battaglia di Verdun e, in seguito, sostenitore di un’educazione non coercitiva e non autoritaria.
Siamo del tutto contrari alla crescita esponenziale degli stanziamenti per le spese militari, mentre sono tagliati il welfare, i trasporti, la sanità e le pensioni. Ci rifiutiamo di accettare la normalizzazione della guerra attraverso la presenza nelle scuole di Forze Armate e Forze dell’Ordine, che presentano il mestiere del soldato come una carriera brillante e trattano delicate problematiche psicologiche e sociali con linguaggi sanzionatori.
Per questo il 4 novembre non parteciperemo ad alcuna celebrazione militarista, ma al Corso di formazione dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e della società e nel pomeriggio saremo in piazza per opporci a tutte le guerre, per rifiutare la militarizzazione della scuola e delle nostre vite, per rivendicare pace e giustizia nella scuola e nella società.


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CONVEGNO Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle universita’

Il convegno organizzato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università per la mattina del prossimo 4 novembre sta registrando una richiesta di partecipazione molto elevata. A questo proposito ricordiamo che: 1) i docenti che dovranno produrre alle scuole l’attestato di presenza possono iscriversi direttamente sulla piattaforma Sofia (ID 101607 ) o mandando una mail a info@formazione-cestes.it
2) per chi non ha necessità dell’attestato sarà possibile seguire i lavori della mattinata sulla pagina youTube

@osservatorionomilitarizzazione

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